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Redditi: per ogni euro ai più poveri ne vanno 10 ai più ricchi. Così l’Italia ha perso 7 punti di crescita

Negli ultimi trent’anni la forbice tra i più ricchi e i più poveri non è mai stata così ampia. Oggi, in Italia, il rapporto tra il reddito medio del 10% più abbiente della popolazione e il 10% più povero è di 10 a 1. Nell’area Ocse è solo leggermente più equilibrato, al livello di 9 volte e mezzo. Negli anni Ottanta, per intendersi, si era a un rapporto di 7 a 1.

Le cose sono andate peggiorando con la crisi economica, che non ha certo livellato l’andamento. Da una tabella allegata al rapporto Ocse su “Disuguaglianze e crescita”, infatti, si vede che nel periodo precrisi (dalla metà degli anni Ottanta al 2007/2008), a fronte di una crescita media del reddito disponibile dello 0,8%, in Italia il 10% più ricco ha registrato un +1,1% e la fetta più povera della popolazione solo un +0,2%. Dopo la crisi, se sul totale della popolazione la perdita annua è stata dell’1,5% del reddito, i più poveri hanno patito un -3,9% e i più ricchi hanno tenuto meglio con un -0,8%.

Questa situazione, denunciata dall’Organizzazione parigina, non è solamente l’evidente fallimento dell’idea di redistribuzione della ricchezza, cioè una diagnosi che pare confermare le tesi annunciate con grande successo di pubblico dall’economista Thomas Piketty. La profonda disuguaglianza di trattamento economico è anche una pesante zavorra alla crescita economica.

L’Ocse ricorda infatti che la forbice aumenta non solo se si guarda al rapporto dei salari sopra enunciato. Ma è lampante anche usando il coefficiente di Gini, cioè una misurazione delle diseguaglianze che varia da zero – dove tutti hanno lo stesso reddito – a uno – dove tutto il reddito va a una persona -. Ebbene, nei Paesi Ocse negli anni Ottanta il coefficiente era a quota 0,29 e nel 2011/2012 è cresciuto di tre punti, a 0,32.

La crescita di medio termine ne è stata gravemente compromessa: i tre punti di aumento del coefficiente, spia della crescita delle ineguaglianze nell’ultimo ventennio, significano una perdita di Pil dello 0,35% annuo per 25 anni successivi. La crescita cumulata si vede così erodere 8,5 punti percentuali. Per l’Italia, il calcolo dell’Ocse stima che l’accentuarsi delle diseguaglianze abbia ‘scippato’ tra sei e sette punti percentuali di crescita tra il 1990 e il 2010. Il Pil tricolore è cresciuto in quel lasso di tempo dell’8%, registrando per altro una delle peggiori performance dell’area. Ma avrebbe potuto correre del 14,7%, superando per dinamismo la Spagna e avvicinando la Francia, senza il peso delle disuguaglianze.

Perché ciò accade? Il fattore determinante è dato dal gap tra i redditi delle famiglie più povere e il resto della popolazione. Secondo gli economisti parigini, non sono soltanto i nuclei nell’ultimo decile (cioè il 10% più povero) a pagare caro la disuguaglianza, ma tutto il 40% della popolazione più in basso nella scala dei redditi. La politica, quindi, deve pensare in maniera molto ‘ampia’ a risolvere i problemi di redistribuzione e povertà. Motivo per cui sono ben accette le scelte di puntare sul rafforzamento dei redditi medio-bassi, fondamentali per il flusso di consumi e quindi ripresa.

Approfondendo ancora il nesso tra ineguaglianze e impatti sulla crescita, l’Ocse dettaglia che la disparità di reddito “mina l’opportunità di istruzione per isoggetti svantaggiati, riducendo la mobilità sociale e ostacolando lo sviluppo delle competenze” e così “ostacolando la crescita di capitale umano”.

di RAFFAELE RICCIARDI
fonte: repubblica.it

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